Pubblicità e giornalismo possono sembrare due entità distinte.
La prima ha che fare con la creatività, il racconto e la vendita di un prodotto o servizio; il secondo con la ricerca delle fonti e i dati, e ha lo scopo di informare.
Nonostante questo, tra le due vi è un’influenza reciproca, tanto che lo storytelling supporta (e spesso sovrasta) l’informazione giornalistica, e allo stesso modo il giornalismo offre al racconto l’oggettività di fatti e numeri.
Estremizzando in positivo le due spinte, si possono scoprire fenomeni come:
- lo slow journalism: l’informazione che rallenta, aggiungendo senso critico e stimolando la discussione attraverso lo storytelling
- il brand journalism: dove la marca si scosta dalla seduzione pubblicitaria per produrre utilità, diffondendo i propri valori e la cultura aziendale
Oggi ti parlerò del secondo, e cioè di quando il giornalismo racconta le marche.
Cos’è il brand journalism
Il brand journalism racconta in maniera imparziale la storia, le vicende e i valori della marca, producendo informazioni utili ai lettori che, approfondendo e appassionandosi, possono diventare nuovi clienti.
La fiducia del consumatore gioca un ruolo fondamentale, perché non si aspetta di trovare contenuti pubblicitari, ma nuova conoscenza riguardo al marchio. Diventare cliente e comprare sono infatti risultati secondari del brand journalism.
Si può dire quindi che i reali scopi di questo tipo di giornalismo siano:
- la brand awareness, cioè la diffusione del brand
- l’industry news, ovvero la produzione di notizie legate al mercato in cui il brand opera
- il create and sponsor, vale a dire la condivisione di contenuti tali da porre l’azienda come opinion leader, capace quindi di attrarre il proprio target
In questo gioco non servono per forza attori esterni, ma è l’azienda, tramite le nuove tecnologie digitali, a tramutarsi in media company, muovendosi in un territorio ai limiti tra l’informazione e il marketing.
Il confine tra giornalismo e pubblicità
Chiaro che il brand journalism, per poter funzionare, necessita di una correttezza ferrea e di grande preparazione.
Questo non solo per quella fiducia coi propri lettori che non si deve tradire, ma per motivazioni legate al diritto. Come spiega la Carta dei doveri sottoscritta dall’ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della stampa:
I cittadini hanno il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli.
Viene inoltre specificato che pubblicità e testo giornalistico devono essere ben distinguibili e che (specie quando è il giornalista a fare attività di brand journalism per una compagnia)
Gli articoli elaborati dal giornalista nell’ambito della sua normale attività redazionale non possono essere utilizzati come materiale pubblicitario.
Attenzione perciò a non confondere questa attività con pratiche come il product placement o il branded entertainment.
Perché giornalista sì e copywriter no?
Anche Paolo Iabichino, nel suo saggio Scripta Volant, spende alcune pagine per il brand journalism.
La sua è una riflessione che parte dalle opportunità offerte dal mondo digital, suggerendo come pubblicità moderna e giornalismo possano contaminarsi a vicenda, in un mix creativo di diversi linguaggi.
La portata narrativa del brand raggiunge il potenziale consumatore con la credibilità giornalistica del reporter, piuttosto che con la creatività del copywriter. E il risultato è un nuovo contesto di senso, un modo alternativo di approcciarsi alla marca, più trasparente, autorevole e vicino alla sensibilità del moderno consumatore.
Brand journalism: casi pratici
Ho sentito parlare di brand journalism per la prima volta durante la ricerca di materiali per la mia tesi di laurea in questo saggio di Roberto Zarriello.
Il tema si concentrava sul rapporto tra storytelling e giornalismo e, incappando nella pratica del racconto di marca attraverso l’informazione, il bisogno di capirci chiaro portò alla luce alcuni casi pratici:
- Le mamme di McDonald’s
Nel 2004 Larry Light, capo dell’ufficio marketing di McDonald’s, invita un gruppo di mamme a visitare i laboratori della catena, dando loro, senza averlo preventivato, il ruolo di reporter in prima linea. L’intenzione è instillare nei clienti maggior gradimento e sciogliere i dubbi sulla qualità dell’alimentazione proposta.
- In viaggio con Moleskine
Parte dell’investimento pubblicitario di Mokesine va nelle pagine di The Towner, rivista che racconta le città più belle del mondo. Gli appunti di viaggio diventano così un pretesto contestualizzato che invoglia indirettamente ad avvicinarsi al prodotto.
- Mediolanum fa cultura con Centodieci
Mediolanum Corporate University, ente di formazione dell’omonima banca, dal 2000 scrive il magazine online risolvendo offrendo spunti e soluzioni nel campo dell’informatica, di internet e della comunicazione. Un progetto culturale dedicato soprattutto ai professionisti del settore bancario e finanziario.
- Mommypedia, un blog mamme
Prénatal, azienda italiana di abbigliamento e accessori per madri e bambini, crea una community capace di coinvolgere e appassionare attraverso la condivisione di opinioni, informazioni, storie e tendenze. Contenuti la cui forma è particolarmente adatta alla condivisione social e alla viralità.
Questi sono solo alcuni degli esempi che non possono che dimostrare come il brand journalism sia utile tanto per la marca, che ha bisogno di creare brand awareness e attrarre nuovo pubblico, quanto per il giornalista (o lo scrittore in generale) in cerca di una nuova opportunità in cui operare.
Alla base di tutto, come già detto, non bisogna però dimenticare la cura per il rapporto fiduciario coi propri lettori e potenziali clienti.
Letture consigliate
Brand Journalism, di Roberto Zarriello
Scripta Volant, di Paolo Iabichino
Informarsi con lentezza: Sette lezioni di buon giornalismo contro l’infobesity, autori vari
Storia del giornalismo, di Giovanni Gozzini
Vero e falso in rete, di Annamaria Testa, Internazionale
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