Vivere nel 2021 significa prestare sempre più attenzione all’inclusività, in ogni sua forma.
Una tematica che coinvolge, naturalmente, anche il modo in cui comunichiamo – se volessimo scomodare l’ipotesi di Sapir-Whorf, potremmo dire che il linguaggio determina il modo di pensare, ma accade anche l’inverso.
Per chi si occupa di comunicazione, quindi, l’inclusività è un tema caldissimo, che rischia però di generare confusione: cosa significa esattamente? Come usarla? Sopravvivrà alla prova del tempo?
E soprattutto, come si coniuga con la questione di genere?
Iniziamo insieme a scoprire qualcosa di più.
Cos’è la comunicazione inclusiva e perché usarla
La comunicazione inclusiva tiene conto del più ampio bacino di utenti possibile.
Essere consapevoli del modo in cui ci si rivolge al pubblico, e soprattutto cercare di coinvolgere il maggior numero di persone, è fondamentale per chi lavora nel mondo della comunicazione, perché un potenziale target ignorato oppure offeso rischia di tradursi anche in un danno per aziende e professionisti.
In particolare, Vera Gheno, sociolinguista e scrittrice, la definisce così:
“La comunicazione inclusiva nasce dall’idea che in una società convivono tante differenze. Ed è quel tipo di comunicazione che tiene conto di tali diversità, che tenta cioè di non escludere nessuno dalla comunicazione e di comprendere tutti, senza offendere. Anche nel senso di riconoscere l’esistenza di un determinato gruppo, attraverso la lingua.”
In questo articolo parleremo della parte relativa alla scrittura e al genere, non addentrandoci quindi nell’ambito grafico con font, colori e impaginazione.
La sfida dell’inclusività: alcuni esempi
Nel tempo la società è cambiata, e la lingua con lei. Si è affinata la nostra percezione della realtà e delle sue sfumature, e abbiamo iniziato a sentire forte e chiara anche la voce di comunità e gruppi di persone che prima avevano poco o nessuno spazio nell’opinione pubblica.
Di quali ambiti si occupa la comunicazione inclusiva? Generalizzando, potremmo rispondere con “tutti”. Come ci spiega Valentina Di Michele in un articolo di Officina Microtesti, in effetti, la costruzione di un linguaggio inclusivo passa davvero per ogni ambito. Per esempio…
Preferisce definire una persona “nera” o “afrodiscendente” quando fino a pochi decenni fa la “n word”, come la chiamano nei Paesi anglosassoni, era utilizzata con leggerezza.
Vede “Persona con disabilità” come un termine migliore di “disabile” o “handicappato”, perché suddetta persona non viene identificata solo con quell’aspetto della propria vita – lo spiega molto bene il giornalista e attivista Iacopo Melio.
Ultimo ma non ultimo, si occupa anche di declinare al femminile le professioni quando a svolgerle è una donna, e cerca di comprendere il più possibile ogni persona che non si identifichi nel maschile sovraesteso.
Comunicazione inclusiva e italiano: il maschile sovraesteso e i femminili professionali
Già da queste poche righe si intuisce come la comunicazione inclusiva sia davvero una questione complicata e ampia!
Per tali motivi, in questo articolo, vorrei concentrarmi su un punto specifico: il maschile sovraesteso e la declinazione delle professioni.
Partiamo dall’inizio.
Che cos’è il maschile sovraesteso?
Per spiegarlo, prendo in prestito le parole di Valigia blu:
“L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile, e in caso di moltitudini miste prevede che si ricorra
al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: basta che un solo uomo sia presente in un gruppo numeroso, infatti, per declin
are il plurale al maschile.”
Facciamo un esempio: in una sala conferenze,
è abbastanza comune che il relatore o la relatrice si rivolga al pubblico salutando con qualcosa di simile a: “Buongiorno a tutti e benvenuti a questo seminario.”
Lo stesso maschile sovraesteso si applica anche nel mondo del lavoro: “l’équipe di medici”, “i nostri professori”, “gli ingegneri del team”.
Questo non sembra un problema quando i nomi dei mestieri femminili siano già radicati dall’uso e, anzi, alle nostre orecchie sembra più semplice declinare al maschile “infermiere” piuttosto che “avvocata” al femminile.
Cosa succede però quando diciamo “avvocata”, “deputata”, “ingegnera”?
Come spiega Vera Gheno nel suo “Femminili singolari”:
“[…] incontrando una parola più spesso, le persone possono abituarsi più velocemente a sentirla prima e a usarla poi. Per quanto invece riguarda il giudizio di presa in giro, occorre ricordare che tale coloritura non è contenuta nella parola, ma è qualcosa che ci aggiungiamo noi parlanti, una connotazione aggiuntiva. La connotazione non è linguistica, ma culturale. E dipende molto dall’uso; proprio per questo, la connotazione può anche cambiare, modificarsi nel tempo. Se oggi avvocata e ministra suonano come prese in giro, domani, a forza di usarle, potrebbero perdere questa caratteristica negativa (come è già avvenuto per moltissimi casi, come senatrice).”
Non evitiamo di usare i femminili professionali perché siano errati, ma perché per secoli certe professioni sono state principalmente appannaggio maschile: e quindi, mancando un elemento da definire – la donna professionista -, mancava anche la parola per farlo.
La comunicazione di genere e le soluzioni proposte: asterischi, schwa e altro ancora
Abbiamo capito che l’italiano è una lingua con due soli generi, ma quindi basta declinare le professioni al femminile per avere una comunicazione pienamente inclusiva?
Certo che no!
Con il progredire della società, come dicevamo, il focus si è sempre più spostato: non siamo più limitati al solo modello maschile/femminile eterosessuale cisgender, ma l’identità di genere si declina attraverso un vero e proprio spettro.
Il che si riflette, naturalmente, anche nella comunicazione.
E quindi nel copywriting.
Una maggiore rappresentanza delle persone che non si identificano nella dicotomia maschile/femminile – transgender, non binarie, agender… – è interessante e dimostra anche maggiore lungimiranza: far sentire le persone rappresentate e viste è un ottimo modo per coinvolgere più persone e fidelizzare un target più ampio. Ovviamente, senza cadere in una versione di ciò che Ella Marciello definisce “allywashing”, usando una terminologia inclusiva solo per motivi opportunistici che non si rispecchia nei valori del brand.
Il problema, però, è: come fare?
La prima cosa è prendere consapevolezza del modo in cui comunichiamo, quindi abituandoci a captare tutte le sfumature della realtà e, da bravi comunicatori – come dice anche Annamaria Testa -, porci domande:
- Mi sono rivolto a tutti?
- C’è qualcosa in più che posso fare?
- Ho considerato un numero sufficiente di casistiche?
Ne è un esempio il caso di Emma Parnell, Lead Service Designer per NHS Digital, che ha modificato il modulo di prenotazione, originariamente pensato solo per persone cisgender (che si riconoscono nel genere di appartenenza). Grazie a un lavoro sulle API, è riuscita a renderlo inclusivo anche per le persone transgender.
La lingua di per sé può essere inclusiva, sta a noi decidere come usare questo strumento potentissimo. E anche se non c’è ancora una soluzione definitiva, esistono alcune strade più o meno percorribili.
- Utilizzare costruzioni generiche.
Usare un linguaggio il più possibile inclusivo, sfruttando giri di parole e cambi di punti di vista che permettano di evitare una connotazione specifica di chi ci leggerà.
Quindi, anziché esordire con “Ciao a tutti” in video, potremmo ricorrere a un “Ciao a tutti e tutte”, o “Ciao a chi mi sta guardando”.
Oppure, quando inviamo una newsletter, possiamo chiamare la persona per nome (“Ciao Alessio, ciao Annamaria, ciao Giangilberto”), dando quindi del tu.
Talvolta adottare un linguaggio gender neutral potrebbe risultare complicato, ma è la soluzione preferita da molte persone che non si trovano a proprio agio con le proposte seguenti. - * (asterisco) e ə (schwa).
In entrambi i casi, non c’è una visione univoca dei linguisti per usare queste due forme grafiche e generalmente capita che possa esserci resistenza.
I due simboli svolgono fondamentalmente la stessa funzione: rendere neutre le parole. Lo schwa ha effettivamente un suono (Vera Gheno mostra la pronuncia nelle storie in evidenza sul suo profilo Instagram), cosa che non avviene per l’asterisco.
La comunicazione inclusiva tra scritto e parlato
Se nel parlato usarli può risultare più complicato, sono molte le realtà che hanno iniziato a sfruttarlo nello scritto, come le newsletter di Guido.
Usare asterisco e schwa permette di rivolgersi in una volta sola a una moltitudine di persone, che non si riconoscono necessariamente nel binarismo di genere.
Non è detto che prenderanno piede o che diventeranno soluzioni accettate dalla nostra lingua, sopravvivendo alla prova del tempo.
Anche perché non sono la soluzione migliore possibile: i parlanti non madrelingua potrebbero faticare a usare lo schwa. Inoltre è abilista, perché le persone con dislessia potrebbero avere delle difficoltà a leggerlo e non è recepito dai sintetizzatori vocali, rendendolo un problema per le persone ipovedenti e non vedenti.
Per il momento sono alcune delle soluzioni proposte, un momento in cui noi copywriter stiamo prendendo coscienza di sfumature di senso che prima non erano considerate.
Insomma, è vero: la comunicazione inclusiva non è sempre facilissima e ci richiede uno sforzo, un pensiero in più.
Più persone lo faranno, però, più potrebbe diventare comune, perché i parlanti plasmano la lingua.
E se può aiutarci ad avvicinarci e coinvolgere quante più persone possibile, perché non darle una chance?
Sull’autrice
Volevo fare la scrittrice, sono diventata una copy e content editor. Vivo di libri nuovi, tè verde e buona scrittura. Femminista praticante e copy inclusiva, sono nata e cresciuta a Torino, ma amo il web perché mi permette di comunicare con il mondo.
Letture consigliate
In altre parole, di Fabrizio Acanfora
Femminili singolari, di Vera Gheno
Parole contro la paura, di Vera Gheno
Il sessismo nella lingua italiana, di Alma Sabatini
Manifesto della comunicazione non ostile e inclusiva
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