A volte pensi di aver elaborato l’articolo che farà saltare l’internet dalle sedie, la pubblicità perfetta, o il corto emozionale più emozionante di sempre. Poi lo dai in pasto al pubblico sovrano e… vieni mangiato vivo!
Il messaggio che volevi trasmettere non viene capito, la gente recepisce tutt’altro, ti chiedi se sono tutti dei fessi o se il problema sei tu.
Ma perché succede questo? E dove sta realmente la colpa?
Le mamme inette di Carpisa e la Pepsi miracolosa
Un paio di esempi recenti di messaggi travisati e campagne disastrose sono quelli di:
- Carpisa, che con questo video per la Festa della Mamma voleva valorizzare quell’idea di donna che è sia lavoratrice che madre, riuscendo invece in un sol colpo a denigrare entrambi i ruoli.
- Pepsi, che in questo spot cercava di trasmettere l’importanza della presa di posizione, da attuare anche pacificamente, finendo però con la patetica glorificazione del proprio prodotto, reso panacea di ogni male.
L’errore, in casi simili, sta nell’aver considerato le persone in ascolto come target, inquadrandole a bersaglio da colpire e spersonalizzando la loro natura.
Se non c’è considerazione del proprio interlocutore viene meno la buona comunicazione che, già nella definizione più banale, insegna una regola fondamentale: c’è chi trasmette un’informazione e c’è qualcuno in ascolto, non qualcosa.
Dimenticarsene significa ignorare deliberatamente, lasciando che valori, linguaggi e culture all’altro capo del filo ti riattacchino il telefono in faccia o te lo tirino addosso (buona scusa per smaltire il telefono fisso, tra l’altro!).
“La maggioranza la pensa come me!” L’inganno del falso consenso
Tendenzialmente pensiamo che gli altri siano molto simili a noi. Diamo per scontato che abbiano gusti vicini ai nostri, opinioni e visioni comuni, abitudini e comportamenti del tutto condivisibili.
L’effetto, che gli psicologi sociali chiamano del falso consenso, è quello di proiettarci sugli altri, e si ritiene venga alimentato dal fatto che ci circondiamo di persone che la pensano come noi: dai genitori agli amici, fino alle community on e offline.
Quando perciò devi comunicare un messaggio, se non hai ben chiaro chi sia l’interlocutore, ne traccerai i contorni formulando delle stime basate su nient’altro che la tua (più o meno importante) esperienza, convinto che là fuori la maggioranza la pensi allo stesso modo.
E se il colpevole fosse lo spettatore?
Fin’ora si è puntato il dito sul creativo, ma il problema dell’incomprensione ha bisogno di un’analisi un po’ più approfondita.
Una riflessione interessante la porta Riccardo Falcinelli, soffermandosi su chi la creatività la consuma. Se il colpevole del misunderstanding fosse chi riceve il messaggio?
Incentrando il discorso sul visual design, che pervade larghi aspetti della comunicazione (produzione, consumo, servizi, intrattenimento ecc.) osserva come questo non sia approfondito come le altre materie, rimanendo un linguaggio imparato per frequentazione prolungata.
Pensare che le competenze visive non vadano spiegate, perché tanto a capire una pubblicità, un fumetto o un telefilm, i ragazzi imparano da soli, è un’idea che comporta dei rischi.
Mancano gli strumenti critici, quelli che di fronte a una manifestazione visiva ti fanno chiedere qual è il punto di vista dell’autore, chi influenza chi, cosa ti sta chiedendo ciò che vedi.
Una logica che va dal “mi piace” al “perché”, per non subire l’immagine, ma farti orientare in una società che ne è satura.
Buone pratiche per comunicare bene
Qualche suggerimento valido sia per i creativi al lavoro sui messaggi e il pubblico che li riceve?
- Ascolta chi è dall’altro lato, utilizzando i dati come bussola e non come oracolo infallibile
- Non separare teoria e pratica, per non finire in quella divisione tra smanettoni degli strumenti e pensatori della comunicazione
- Fatti delle domande, indossa i panni dell’altro praticando l’empatia, vai oltre l’esperienza personale (e stai attento all’inganno del falso consenso)
- Ricordarti che siamo persone, non target, non consumatori, né aziende o fasce di mercato
Letture consigliate
Critica portatile al Visual Design, Riccardo Falcinelli
Trappole mentali, Matteo Motterlini
Scripta Volant, Paolo Iabichino
Pubblicità da incubo: i più grandi fail dell’advertising nel 2017, Ninja Marketing
Carpisa e lo spot che fa in furiare le mamme lavoratrici, repubblica.it
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Esattamente: l’empatia potrebbe essere già uno dei mezzi per uscire dal pantano che rischia di crearsi se ci si rivolge a tutti… considerando solo le nostre esperienze^^
Moz-
Vero, anche se è più facile a dirsi che a farsi. Io per esempio mi ritengo piuttosto empatico, ma vai a capire se davvero lo sono o se sto cadendo in qualche pregiudizio.
Magari impegnarsi a provarci è già un passo avanti.
Benvenuto da queste parti comunque 😉