Tempi nuovi e ignoti quelli del Coronavirus.
Proprio per questo, di fronte a un’epidemia che uccide e sconvolge la nostra quotidianità siamo più sensibili verso le scelte altrui, specie se arrivano da medici, manager o politici. Ora più che mai le loro decisioni sembrano avere un impatto diretto, concreto e immediato e noi siamo vulnerabili.
Quando perciò l’azienda opta tra smart working o chiusura, e il supermercato vieta l’ingresso a chi è senza mascherina o il primo ministro emana il nuovo decreto, ecco levarsi il giudizio collettivo. Un giudizio appassionato e spesso critico, legato alla paura verso il mutamento di uno status quo e acceso da facili valutazioni col senno di poi.
Da #MilanoNonsiFerma al lockdown, da Italia prima infetta all’auto isolamento in tutta Europa, qual è il futuro che ci attende?
Cosa accadrà nella Fase 2, come saranno prese le prossime decisioni e quali sono le difficoltà nel tracciare una strada verso il futuro?
Aperto, lockdown e Fase 2: cambiare lo status quo
La verità è che non avevamo previsto di rimanere in casa per mesi, e nonostante la pace fatta con la nuova quotidianità ci aspettiamo ancora la parola fine. Così, come se domani, a un via del nostro Giuseppi, si potesse cancellare tutto e far finta di niente.
Quel che è cambiato radicalmente, ora che il lockdown è parte dell’immaginario collettivo, è lo status quo, e questo è un evento assolutamente eccezionale per due motivi:
- andare consapevolmente incontro a un grande cambiamento è difficilissimo, e come dimostrato dall’economista comportamentale Dan Goldestin questa scelta spesso non si basa su un sistema di preferenze, ma sulla naturale propensione verso il mantenimento delle cose così come stanno
- una volta che uno status quo è insediato diventa infatti una situazione di default e inconsciamente si fa accettare come la più raccomandabile. Cambiarla inoltre richiede un enorme sforzo cognitivo
L’insidia, a questo punto, è abbastanza chiara.
Il passaggio dal pre epidemia all’attuale lockdown è stato in un certo senso “poco faticoso”, e si è reso inevitabile per provvedere a un bisogno primario: la salute.
Meno immediato invece sarà l’avvio alla Fase 2, non tanto perché non ancora definita, ma piuttosto per l’elevata percezione di pericolo e per l’enorme sforzo cognitivo che richiederà l’abbandono della nuova situazione di default.
Lo stress, l’azione tunnel e gli errori
Essere i primi ad affrontare il COVID-19 e non avere l’esempio di altre nazioni complica ulteriormente le cose. Una delle grane più grosse affrontate dai nostri scienziati e dal governo italiano è infatti il timing.
Laddove il virus inizia a diffondersi a macchia d’olio, la sanità rischia il collasso e l’economia preannuncia una nuova crisi, è necessario agire rapidamente. La fretta però non è mai amica della qualità che, in una casistica tanto complessa, pretende invece un’analisi attenta, lunga e… infattibile.
Entra allora in gioco lo stress che, come afferma la legge di Uerkes-Dodson, migliora le prestazioni quando l’eccitazione mentale non è eccessiva e i problemi sono poco complessi, ma rischia di creare dei blackout quando cresce e le difficoltà si moltiplicano.
Lo stress può essere uno stimolo a risolvere, ma se il suo livello eccede l’attenzione non è più a fuoco, la memoria fa cilecca e il problem solving va a quel paese. Parte quindi un’azione tunnel, in cui si ripetono gli stessi errori senza vedere mai una via d’uscita.
I profeti del giorno dopo
Ed eccola qui, allora, la grande entrata in scena dei profeti del giorno dopo.
Come dicevo all’inizio, il giudizio col senno di poi non solo è di moda, ma è inevitabile quando le conseguenze di ogni scelta (specie quelle altrui) vengono vissute sulla propria pelle.
Quella del senno di poi è una distorsione retrospettiva del giudizio, una necessità di fatalismo nella visione di eventi già accaduti. Quel che si fa, per ragioni di organizzazione cognitiva, è creare schemi tra eventi non lineari, tirando conclusioni per noi così solide da credere che non sarebbe potuta andare diversamente.
Facile quindi parlare col senno di poi, ma non altrettanto agire, perché la capacità di imparare dall’esperienza può accrescere una fiducia del tutto immotivata, portandoti in futuro a mortificarti di fronte a errori imprevedibili e inevitabili (e a diventare preda di critiche o di altri profeti del giorno dopo).
Combattere insieme ci motiva
Parlando di scelte non posso che citare, infine, la più impegnativa di tutte: quella che milioni di persone stanno facendo nel preciso momento in cui scrivo. Stare a casa.
Come già avevo scritto in un altro articolo, la potenza di #IoRestoaCasa si spiega col fatto che costituisce un ordine immaginario costituito. Una narrazione comune, credibile e attualissima capace di coordinare individui diversi per valori, credenze e cultura. Una scelta collettiva che funziona (quasi) senza coercizione.
Un altro motivo della sua efficacia però lo spiega anche lo psicologo Jonathan Haidt, che nel suo articolo “Hive Psychology, Happiness, and Public Policy” connette le attività simultanee ai processi dei neuroni specchio.
Seguendo i principi di antropologia e psicologia evolutiva, ipotizza che i nostri legami sociali vengano promossi dall’attività congiunta dei gruppi di persone. Esisterebbe infatti un certo tipo di felicità che gli umani provano soltanto impegnandosi in attività di questo tipo.
Combattere insieme perciò, ci gratifica, ci unisce e ci rende più tosti, non solo come italiani o europei, ma come cittadini del mondo, come esseri umani.
Letture consigliate
Trappole mentali, Matteo Motterlini
Sapiens, Da animali a dèi, di Yuval Noah Harari
100 cose che ogni designer deve conoscere, di Susan M. Weinschenk
100 nuove cose che il designer deve sapere sulle persone, di Susan M. Weinschenk
Bias congitivi e decisioni sistemiche ai tempi del virus, di Nuovo e Utile
Do defaults save lives?, di Daniel Goldstein
Hive Psychology, Happiness, and Public Policy, di Jonathan Haidt
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